Non è reato ma, come vedremo, è un comportamento pur sempre produttivo di gravi conseguenze, l’annotazione di fatture false. L’indicazione di tali documenti nella contabilità aziendale non è infatti in grado di produrre effetti sotto il profilo penale, visto e considerato che tale responsabilità sorge solamente in sede di presentazione della dichiarazione.

Ad affermarlo è stato, negli scorsi giorni, la terza sezione penale della Corte di Cassazione, che con sentenza n. 23229 / 2012 ha respinto il ricorso della Procura di Trento che chiedeva la condanna di un ex manager che, durante il periodo del suo mandato da amministratore, aveva preso accordi e annotato false fatture nella contabilità. Di tale reato risponderà il nuovo vertice aziendale, che era entrato in carico poco prima della presentazione della dichiarazione.

La motivazione di tale decisione, affermano i giudici della Suprema Corte, è riconducibile a quanto contenuto nell’art. 2 del d.lgs. 74 del 2000, dove la condotta è contemplata in quella di indicare in una delle dichiarazioni annuali relative alle imposte sui reddito, o sul valore aggiunto, elementi passivi fittizzi. L’art. 6 dello stesso decreto prevede inoltre che il delitto in questione non sia punibile a titolo di tentativo.

A conforto di ciò, anche la stessa relazione ministeriale al decreto, che spiega che la ragione della norma è quella di evitare che il trasparente intento del legislatore delegante di bandire il modello del reato prodromico “risulti concretamente vanificato dall’applicazione del generale prescritto dell’art. 56 c.p.: si potrebbe sostenere, difatti, ad esempio, che le registrazioni in contabilità di fatture per operazioni inesistenti o sottofatturazioni, scoperte nel periodo d’imposta, rappresentino atti idonei diretti in modo non equivoco a porre in essere una successiva dichiarazione fraudolenta o infedele, come tali punibili ex se a titolo di delitto tentato”.